ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

Corso di laurea in 

Antropologia, Religioni, Civiltà Orientali

TITOLO DELLA TESI

#ThisisEndometriosis: Narrare l’endometriosi online

Tesi di laurea in 
Antropologia Culturale

Relatore Prof: 
Ivo Quaranta

Presentata da: 
Sophia Gimigliano

Appello
terzo
Anno accademico
2018-2019

© Georgie Wileman

Indice
Introduzione
Illness narratives 2.0
Endometriosi, una definizione biomedica
L’hashtag, i post e le tematiche 
Illness narratives
L’invisibilità del dolore
Contestualizzazione delle narrative
Rendere visibile l’invisibile
Dolore, relazioni e giudizio morale
La diagnosi di una malattia invisibile
Le narrative per un nuovo inizio
Ricostruzione dell’Io, ricostruzione del mondo
Una comunità di sorelle virtuali
Conclusione
Bibliografia

Introduzione
‘Endo..che??’ è stata la mia reazione la prima volta che ho sentito parlare di endometriosi. Stavo scorrendo pigramente delle foto su Instagram quando una foto ha attirato la mia attenzione. Lo scatto ritraeva l’addome di una ragazza dove erano state disegnate con un pennarello delle linee che univano dei puntini, avete presente il “giochino” di unisci i puntini per creare un’immagine? Proprio come quello, io lo facevo sempre sulla settimana enigmistica di mia nonna, quando ero troppo piccola per fare le parole crociate. Accanto all’estremità di ogni segmento erano segnate una serie di date e solo due piccole cicatrici erano riconoscibili tra i punti di unione delle linee. La foto era stata pubblicata dalla fotografa Georgie Wileman ed era un autoritratto. Il mio interesse per la fotografia e per gli autoritratti mi ha spinto a salvare questo post per la sua estetica, anche se non mi era chiaro di cosa parlasse, solo dopo settimane ci sono ritornata per leggere con più attenzione quello di cui trattava. Ciò che vi ho letto mi ha impressionato ed incuriosito, e ad essere onesta, mi ha anche un po’ terrorizzata. Endometriosi era una parola che mi sembrava di aver già sentito, ma non avevo idea di cosa fosse; qual’è la novità? ci sono tante malattie che non conosco, quello che mi ha sorpreso è di non conoscerne una che a quanto pare affligge moltissime donne, ben una su dieci. Mi ha turbato non essere a conoscenza di una condizione che colpisce così tante donne e che avrebbe facilmente potuto colpire anche me, o le donne e ragazze che conosco e a cui voglio bene, che magari non ne parlano o stanno male e non sanno perché, subendo i sintomi in silenzio. Oltre all’esperienza di Georgie Wileman, ho potuto leggere tante altre storie personali sull’endometriosi su altri post simili, che ritraevano addomi femminili su cui erano disegnate tante costellazioni diverse. La fotografa ha infatti lanciato l’hashtag #thisisendometriosis per creare una campagna di sensibilizzazione rispetto all’endometriosi; ha invitato chi soffre di endometriosi a pubblicare una foto delle proprie cicatrici e a condividerle durante il marzo 2019 usando l’hashtag. Da questo progetto di sensibilizzazione è iniziata la mia ricerca per scoprire di più sull’endometriosi e rivivere la storia di queste donne coraggiose che mi hanno commosso, non raramente mentre leggevo i loro post sono scoppiata a piangere immedesimandomi nelle loro storie e mi sono dovuta prendere una pausa Netflix per non esserne sopraffatta. Ma torniamo alle cose pratiche.
Poiché attraverso i loro post, le donne creano delle narrative della loro esperienza di malattia, ciò che raccontano sarà analizzato attraverso il concetto di antropologia medica di “illness narratives”. L’analisi di queste narrative ci permetterà di conoscere meglio l’endometriosi e chi ne soffre. In questo testo verranno analizzate le esperienze di malattia vissute dalle donne che soffrono di endometriosi condivise attraverso il social media Instagram, l’analisi si baserà sui post condivisi su Instagram con l’hashtag “thisisendometriosis”, di cui verrano analizzate le foto, le didascalie ed i commenti, analizzandone le tematiche più ricorrenti che raccontano cos’è la malattia. Concentrandosi sulle tematiche più comuni è possibile riportare quali sono gli argomenti di cui le persone che soffrono di endometriosi sentono la necessità di parlare e capire cosa determina maggiormente la loro esperienza di malattia.
Tengo a specificare che quando in questo testo parlo delle donne che soffrono di endometriosi, vengono presi in considerazione anche i pochi uomini che ne soffrono. Poiché l’endometriosi è una condizione che colpisce prevalentemente e quasi esclusivamente il genere femminile, e poiché ritengo che nell’analisi delle narrative la differenza di genere sia importante, ho preferito parlare di questo gruppo come “donne”, specificando che includo in tale gruppo anche la piccola percentuale di uomini, piuttosto che utilizzare un termine generico che comprenda entrambi i sessi. La percentuale maggiore delle partecipanti al progetto provengono dagli Stati Uniti, ma anche Australia, Regno Unito, Germania, Italia, Islanda, Sud Africa. È importante tener conto che il fatto che le partecipanti provengono prevalentemente da alcuni paesi, non vuol dire che le donne non ne siano affette in tutti gli altri; in molti casi può risultare che le percentuali di donne che soffrono di endometriosi siano inferiori in alcuni paesi rispetto ad altri, ma questo può essere dovuto al fatto che non ci siano le condizioni economiche per ottenere o richiedere una diagnosi.
Verranno inoltre utilizzati il simboli “#” e “@” caratteristici della piattaforma social Instagram; “#” posizionato davanti agli hashtag e la @ usata davanti ai nomi delle users quando vengono citate parti delle caption, le users citate sono state tutte rese anonime.


Capitolo primo
Illness narratives 2.0

Endometriosi, una definizione biomedica 
Scrivendo questa tesi mi è spesso che qualcuno mi chiedesse quale fosse l’argomento che stavo trattando; in queste occasioni ho potuto notare come pochissime persone conoscano veramente l’endometriosi. Alcuni cercavano di indovinare risalendo all’etimologia della parola, e da ciò ritenevano che fosse qualcosa concernente l’utero; altri dicevano di averne già sentito parlare ma che non ne erano certi, ricordando che fosse qualcosa relativo al ciclo mestruale. Queste supposizioni non sono del tutto errate, poiché utero e ciclo mestruale sono effettivamente legati all’endometriosi, ma non descrivono in modo consono la malattia, tralasciandone gli aspetti fondamentali. È scioccante vedere come pochissime persone conoscano l’endometriosi visto che la percentuale di donne che ne sono affette è piuttosto alta. Le statistiche riportano che tra donne in età fertile, dai 15 ai 49 anni circa, 1 donna su 10 ne soffre (endometriosi.it, Fazleabas 2012), nella fascia di età tra 29 e i 39 anni addirittura 1 donna su 2 (farmacoecura.it). L’endometriosi colpisce prevalentemente le donne, ma ne possono essere affetti anche gli uomini sottoposti a una terapia a base di estrogeni. La disinformazione riguardante l’endometriosi fa sì che spesso la malattia non venga presa sul serio e per questo motivo, prima di proseguire nell’analisi delle “illness narratives”, è importante guardare a una definizione biomedica della malattia.
Partiamo dalle basi: la parola endometriosi deriva da “endometrio”, composto di endo- e un derivato del greco mḗtra ‘utero’; l’endometrio è la mucosa che riveste la superficie interna dell’utero (Zingarelli 1999). In una condizione normale il tessuto endometriale riveste l’interno dell’utero, e durante la fase proliferativa si ispessisce, preparando l’utero ad accogliere l’ovulo e un’eventuale gravidanza (Bruce R. Carr et al. 1989). Quando l’attecchimento dell’ovulo non avviene, il tessuto endometriale si sfalda e fuoriesce dal corpo con il ciclo mestruale, per poi riformarsi nella fase proliferativa successiva (ibidem). L'ispessimento o lo sfaldamento del tessuto sono determinati dagli ormoni presenti nel sangue, che cambiano durante le varie fasi del ciclo (ibidem). Bene, ora che sappiamo tutti cos’è l’ndometrio passiamo a la parte importate. L’endometriosi è la condizione in cui del tessuto endometriale attecchisce e cresce al di fuori della cavità uterina (Bobbio et al. 2012). Le cellule endometriali si possono dunque venire a trovare nel peritoneo pelvico o negli altri organi pelvici, come ovaie, legamenti uterini, tube, vescica, ma anche in altre parti del corpo, come ombelico, intestino tenue, appendice, vulva, cicatrici da interventi laparotomici e in pochi casi anche nei polmoni (De Marco 1999). Queste isole di tessuto endometriale sono influenzate dagli ormoni e durante la fase mestruale si sfaldano producendo sanguinamento allo stesso modo del tessuto endometriale normalmente presente sulle superfici interne dell’utero; a differenza di quest’ultimo il sanguinamento prodotto dal tessuto endometriale in posizione anomala non può fuoriuscire dal corpo, causando ristagno di sangue, emorragie interne e infiammazioni (ibidem). Lo sfaldamento e la ricrescita ciclica di questo tessuto portano alla formazione di cicatrici interne e ad un’infiammazione cronica dei tessuti dannosa per l’apparato femminile o per gli altri organi (Tele Pace 2017); questo processo di cicatrizzazione e riparazione può produrre aderenze tra i diversi organi della cavità addominale e ostacolarne la corretta funzionalità (Adamson 2012). Tuttavia l’endometriosi non presenta alcun sintomo esteriore che possa permettere  ad un osservatore esterno di riconoscere la malattia. 
Sono state definite diverse tipologie di endometriosi rispetto alla posizione del tessuto endometriale nel corpo della paziente. Una delle distinzioni importanti e quella tra adenomiosi e endometriosi esterna (Enciclopedia medica italiana 1976). Oltre a questa distinzione sono stati fatti altri tipi di classificazione più specifici. In uno studio del 1989, ad esempio, Markham distingue gli impianti di endometriosi nel sistema digestivo, sistema urinario, torace, ed in altre parti del corpo (Bobbio et al. 2012).
I sintomi dell’endometriosi sono vari e non sono uguali per tutte, ma alcuni sono ricorrenti; i sintomi principali si presentano nella maggior parte dei casi, il 20 – 25% invece è asintomatico (endometriosi.it). In genere si manifesta con forti dolori pelvici, dolore durante i rapporti sessuali, dolore alla minzione, dolore alla defecazione e infertilità; può portare astenia, lieve ipertermia e depressione (Bruce R. Carr et al. 1989). Non in tutte le donne il dolore si presenta con la stessa intensità o nella stessa fase del ciclo, alcune presentano dolore durante le mestruazioni, altre durante l’ovulazione (De Marco 1999). 
La gravità dei sintomi non è sempre proporzionale all’estensione del tessuto endometriale; alcune donne che risultano avere una bassa presenza di tessuto endometriale al di fuori dell’utero possono riportare dei sintomi molto acuti; altre invece, nonostante lo stadio avanzato della malattia, non presentano sintomi (Cozzi 2012). La diagnosi risulta in entrambi i casi difficile poiché i sintomi possono essere legati anche ad altre patologie e anche perché l’unico modo per diagnosticare l’endometriosi con certezza è attraverso una laparoscopia (De Marco 1999, Fazleabas 2012). Spesso passano molti anni prima che le pazienti riescano ad ottenere una diagnosi di endometriosi, in Italia ad esempio il ritardo diagnostico è valutato intorno ai 7 anni (salute.gov.it).
Nei casi asintomatici la diagnosi di endometriosi viene fatta a seguito di indagini richieste per difficoltà nella ricerca di una gravidanza (De Marco 1999). Una delle conseguenze di un’endometriosi non curata può essere proprio l’infertilità, causata possibilmente da danni e aderenze alle ovaie o alle tube; nei casi in cui non provoca infertilità può comunque portare ad un alto tasso di aborti spontanei (ibidem).
L’endometriosi è considerata una malattia enigmatica, infatti non ci sono ancora studi che siano riusciti a spiegare con certezza l’origine di questa patologia (Grümmer 2012). Non esiste una cura e le terapie si concentrano nel cercare di ridurre i sintomi piuttosto che curarne le cause (ibidem). La gravidanza è stata ritenuta una cura efficace per l’endometriosi (enciclopedia medica italiana 1976), opinione che però viene contestata da altri studi (De Marco 1999). Di per sé la gravidanza non cura l’endometriosi, probabilmente può diminuirne i sintomi durante la gestazione, ma una volta che la gravidanza è finita e gli ormoni si sono ristabilizzati, i sintomi si ripresentano (ibidem); bisogna anche considerare che l’endometriosi può portare infertilità e difficoltà nel rimanere incinta, ed è dunque un paradosso proporla come cura. I trattamenti ormonali e la pillola contraccettiva vengono spesso prescritti come cura per l’endometriosi, nonostante anche in questo caso non esistano studi validi che ne provino l’efficacia (De Marco 1999). La terapia più efficace al giorno d’oggi è l’asportazione del tessuto endometriale tramite intervento chirurgico in laparoscopia, che punta a rimuovere i focolai presenti; ci sono tre tipi di operazioni chirurgiche possibili: l’escissione, l’ablazione e la rimozione tramite laser (Michael P. Diamond et al. 2012). L’intervento chirurgico potrebbe non essere risolutivo poiché il tessuto può riformarsi, rendendo necessaria un’altra operazione chirurgica. In alcuni casi una isterectomia può essere consigliata (Alan Lam et al. 2012). L’endometriosi è dunque fino ad oggi una malattia cronica incurabile e negli stadi avanzati, III o IV, viene considerata, almeno in Italia, come una malattia invalidante (salute.gov.it).
Essere a conoscenza della condizione clinica dell’endometriosi permette di comprendere meglio le narrative condivise attraverso l’hashtag #thisisendometriosis. Infatti conoscere le caratteristiche di questa malattia è necessario per capire ciò che verrà analizzato nei prossimi capitoli.​​​​​​​


L’hashtag, i post e le tematiche
#Thisisendometriosis è un hashtag che è stato creato dalla fotografa Georgie Wileman in occasione del marzo 2019, proclamato a livello internazionale mese per l’endometriosi. Questo hashtag nasce come campagna di sensibilizzazione; un’opportunità per condividere con un ampio pubblico informazioni sull’endometriosi e esperienze personali della malattia. 
La stessa Georgie Wileman soffre di endometriosi e il primo post sul suo account instagram che tratta di endometriosi risale al 15 novembre del 2017. La foto postata è un autoscatto che vuole raccontare la propria esperienza di malattia. Rappresenta il suo addome, dove con delle linee tracciate a penna sono state unite le cicatrici delle laparoscopie a cui è stata sottoposta. Accanto ad ogni cicatrice è segnata la data in cui ha subito l’operazione, accanto a tutte le cicatrici sono presenti più di una data indicando tutte le volte che quelle ferite sono state riaperte per ripetere l’operazione. Le linee insieme alle date creano una mappa delle cicatrici. L’opera, che fa parte di una serie di autoritratti in cui l’autrice attraverso il mezzo fotografico racconta la sua malattia, si intitola “2014-2017”, indicando l’intervallo di tre anni in cui ha subito cinque interventi di escissione. Dalla metà del febbraio 2019, attraverso il suo profilo instagram, invita tutte le donne e gli uomini che soffrono di endometriosi a ricreare foto simili alla sua e a pubblicarle a partire dal primo marzo 2019, per far conoscere a più persone possibili cos’è l’endometriosi, raccontando ognuno la propria storia e le proprie cicatrici. La malattia infatti è molto poco conosciuta e attraverso questo progetto la fotografa Wileman vuole mostrare cos’è davvero l’endometriosi, come dice nella caption che accompagna il suo post: ‘By asking people to date and connect their own scars, or lay with their heat pads, we can show the true extent of endometriosis’ (@Wileman). La creazione dell’hashtag le ha permesso di attivare molte persone, mostrando non solo cos’è l’endometriosi, ma anche la quantità di donne che soffrono a causa di questa malattia; come scrivono in molti dei post condivisi ‘I’m 1 in 10’, indicando le alte percentuali di persone affette da endometriosi.
Utilizzando questo hashtag, il primo marzo del 2019, 59 donne e un uomo da diverse parti del mondo hanno postato una foto del loro addome che emulava l’immagine originale pubblicata dalla creatrice dell’hashtag. A seguire, tante altre persone hanno condiviso i loro post durante tutto il mese di marzo e nei mesi successivi.

Ogni post è costituito da una foto che ritrae un addome femminile, in pochissimi casi un addome maschile, e seguendo le indicazioni della fotografa sull’addome sono state disegnate delle linee che uniscono le cicatrici presenti. Spesso le cicatrici sono molto piccole ed è difficile vederle, ma è possibile individuarle poiché sono il punto d'incontro dei vari segmenti. L’unione di questi punti e dei segmenti può essere immaginata come una costellazione; su ogni addome sono presenti costellazioni simili che ci permettono di immaginare una storia comune costruita dagli elementi ricorrenti delle varie esperienze, ma allo stesso tempo le costellazioni sono diverse l’una dall’altra perché ogni storia è unica. Accanto ad ogni cicatrice sono indicate le date in cui ognuna ha subito le operazioni chirurgiche, la presenza di più date vicino alla stessa cicatrice indica che quella ferita è stata riaperta più volte a distanza di tempo. L’aver ripetuto un’operazione indica che la precedente non ha sortito gli effetti voluti, che l’endometriosi si è riformata e il dolore è tornato. Sotto ogni fotografia sono presenti delle caption che le partecipanti hanno sfruttato per aggiungere significato alle foto, raccontando qualcosa sull’endometriosi e su cosa rappresenti l’immagine. Ci sono caption lunghe ed altre molto sintetiche, alcune descrivono in breve l’endometriosi, altre riassumono le esperienze personali con brevi frasi, altre ancora si dilungano raccontando la prima volta che si sono presentati i sintomi dell’endometriosi, la difficoltà nel ricevere una diagnosi e le operazioni chirurgiche subite. Esprimono la frustrazione di non sentirsi ascoltate né dai loro dottori né dai loro parenti, ed esprimono gratitudine quando sanno che a differenza di tante altre donne hanno la fortuna di avere un bravo specialista che le segua. Raccontano delle operazioni chirurgiche che hanno fallito nell’alleviare i dolori, delle speranze deluse, della solitudine o della forza data dal trovare altre donne che stessero attraversando le stesse difficoltà e potessero capire cosa si prova. Discutono delle mancanze del sistema sanitario, della carenza di specialisti e dell’assenza di ricerche mirate a trovare una cura; si indignano per la poca considerazione che viene data ad una malattia debilitante così altamente diffusa. In alcuni commenti danno consigli su che tipo di terapia cercare, cercano consigli su come affrontare la malattia o semplicemente qualcuno con cui condividere quello che gli sta succedendo. 
Qui di seguito riporterò una delle caption per interno per dare l’idea precisa di ciò che si andrà ad analizzare nei prossimi capitoli. Molte delle caption, come questa, sono cariche di significati. Ho scelto di mostrare questa caption anche se piuttosto lunga, poiché tratta molte delle tematiche comuni agli altri post, di cui abbiamo parlato sopra, ed è dunque un buon esempio delle narrative prodotte su i post condivisi.

‘3 surgeries. 11 incisions. All within 5 months. Over a decade of pain before being diagnosed.•
I remember my first endometriosis flare. My stomach was bloated and I was in so much pain I didn’t want to go to school. My mom took me to the doctor, he pressed on my stomach, left the room and told the nurse in the hallway he thought I could be pregnant. I was 11 years old. I was diagnosed at 25 years old. •
To say I went through hell would be an understatement. Doctors continued to tell me that nothing was wrong, that it was stress and anxiety and that everything was in my head. I was looking for attention. After a doctor laughed at me I decided to give up, live my life and try to deal with it. When you’re told you’re not feeling the way you do, it can really mess with your head to say the least. •
I was told the likelihood of me having endometriosis was slim, as I didn’t complain about the textbook symptoms, so it took 3 appointments in 2 weeks to finally be given the opportunity for surgery as a last resort. •
Why did I not have the textbook symptoms of endometriosis? Because there was only one patch on my reproductive organs, on my uterus. The 14 other places it was found in my body was located all on my ligaments, pelvic/abdominal wall, my appendix and it was starting to fuse my liver to my colon. •
The minute I woke up I asked if I had endometriosis and when the answer was yes, I burst into tears, and through those tears I told my mom, “I’m not crazy. They thought I was crazy. I’m not crazy.” If I could go back to every doctor I went through and tell them they failed me, I would. The mental damage they did to me is honestly unforgivable. You see me on my all forms of social media being loud about endometriosis and that’s because I know there are people out there in my shoes being failed by doctors, and they should know even though it’s hard they shouldn’t give up. 
1 in 10 women have endometriosis. That’s 176 million women, and yet there’s only 200 specialists. Something needs to change’. (@coo)

In questa caption vengono raccontati alcuni degli episodi dell’esperienza di malattia dell’autrice del post. La user racconta sia l’evento in cui ha provato per la prima volta il dolore dell’endometriosi, sia il momento in cui, dopo 14 anni trascorsi a cercare una diagnosi e a convivere con fortissimi dolori, le è stata finalmente diagnosticata l’endometriosi. All’interno di questa caption possiamo trovare diversi stili di narrazione. La prima parte è piuttosto didascalica e in breve da informazioni sul suo vissuto e la malattia. Racconta poi della sua prima esperienza di endometriosi, del rapporto con i dottori e delle conseguenze dell’endometriosi sul suo corpo e la sua psiche. 
Dalla lettura delle esperienze di malattia condivise attraverso questo hashtag si possono estrapolare tematiche abbastanza diffuse nella letteratura dell’antropologia medica, come verrà analizzato nei capitoli successivi. Nel complesso tutti i post presentano delle narrative cariche di significato.


Illness narratives
Le narrative che verranno analizzate in questa tesi sono state prodotte online su un social media ed è dunque opportuno chiedersi se è ammissibile analizzarle attraverso il concetto di “illness narratives”. Nel rispondere a questo interrogativo bisogna tener conto che negli ultimi decenni il “medical landscape” ha subito una trasformazione sostanziale (Bury, 2001). Anni fa la possibilità di trovare informazioni riguardo una malattia erano piuttosto ridotte, oggigiorno con la diffusione di tantissime informazioni mediche su internet disponibili per chiunque, è invece possibile documentarsi da soli (Bury, 2001). Queste informazioni non vengono diffuse solo attraverso siti appositi dedicati alla materia, ma esistono anche dei gruppi online di auto-aiuto o di supporto, dove i partecipanti possono scambiarsi pareri e informazioni a vicenda (Emad 2006, Cozzi 2012). Nel processo di condivisione su internet di esperienze di dolore cronico si producono nuove relazioni di supporto e cura del paziente, creando nuove forme di ‘patient expertise’ (Gonzalez-Polledo et al. 2016). La crescente possibilità di informazione ha fatto sì che il medico non sia più l’unica fonte di conoscenza (Cozzi 2012), e si può vedere come i punti di riferimento per chi è malato stiano cambiando. Su internet si possono scambiare informazioni riguardanti le malattie sia con professionisti che con i non professionisti. Considerando questa evoluzione ritengo sia importante studiare le narrative che si vengono a creare dalla relazione di questi “nuovi interlocutori”, come anche rimarcato da Elena Gonzalez-Polledo: ‘it is worth paying attention to how people with pain express their condition, not only through words in a clinical context but also through other media and to other audiences’ (Gonzalez-Polledo et al. 2016: 1456). In questo studio le narrative che verranno analizzate sono state create su un social media denominato Instagram. Condividere le proprie esperienze di malattia su un social media crea interlocutori ancora diversi da quelli dei gruppi di auto-aiuto, infatti mentre nei gruppi le informazioni personali rimangono private, sui social media le narrative che vengono prodotte sono di dominio pubblico. È pur vero che forse non sono le classiche “illness narratives” che sono state analizzate finora nella storia dell’antropologia medica, e come dice Riessman ‘Narrative approaches are not appropriate for studies of large numbers of nameless and faceless subjects’ (Reissman 2000: 5); eppure queste narrative sono lì, online, leggibili da tutti: si può decidere se ignorarle o se cercare di capire cosa vogliono condividere. Internet è un mezzo sempre più diffuso per la condivisione delle proprie esperienze e sui social media si sta formando un archivio sempre più ampio di ‘chronic pain expressions’, archivio a cui si può avere accesso da qualsiasi parte del mondo (Gonzalez-Polledo et al. 2016). La condivisione di esperienze di dolore cronico sui social media sta portando a un cambiamento del modello tradizionale delle “illness experience” (Gonzalez-Polledo et al. 2016), e credo che se l’antropologia vuole restare al passo coi tempi deve necessariamente interessarsene. 
Considerando che la maggior parte dei partecipanti alla campagna di sensibilizzazione per l’endometriosi proviene da paesi europei, nord americani o dall’Australia, possiamo considerare queste narrative come più rappresentative della cultura occidentale. Questo implica che hanno dei ‘ME’, modelli esplicativi di malattia, simili (Young 2006: 123). Il fatto che i Me siano simili ci permette di analizzare in blocco le esperienze di malattia condivise attraverso l’hashtag, cosa che è possibile fare anche perché le storie raccontate presentano moltissime tematiche comuni. Per questi motivi anche se lo studio comprende un ampio numero di soggetti, è possibile fare un’analisi complessiva, tenendo comunque conto dell’unicità di ogni storia. 
È importante tenere a mente che le narrative non sono qualcosa di preesistente, ma qualcosa che viene prodotto con/per qualcuno, un dottore, uno psichiatra o un ricercatore (McGowan 2007). In questo caso “l’altro” con cui le donne creano le narrative è un potenziale lettore, che comprende tutto il pubblico che potenzialmente può entrare in contatto con il feed. Chi crea il post è consapevole che verrà letto ma non sa da chi esattamente. Questo fa sì che la caption venga prodotta dall’interazione potenziale con qualcuno, e non da un interlocutore presente al momento della produzione stessa. Si può immaginare che in questo caso specifico il “potenziale lettore” sostituisca la figura dell’interlocutore medico, psichiatra o ricercatore. Ritengo che questo ampio pubblico potenziale rappresenti in qualche modo la società tutta. L’analisi di queste narrative ci può dunque dire di più su come le donne che soffrono di endometriosi vogliono mostrare la loro malattia alla società, su quali sono le loro speranze e su cosa vorrebbero che cambiasse. Le narrative posso anche mostrare il punto di vista storico e della società sul benessere e sulla malattia; dunque attraverso le illness narratives studiate sarà possibile osservare come l’endometriosi è vista dalla società in questo periodo storico  (Reissman 2000). Confrontando le narrative prodotte nelle caption e la definizione biomedica dell’endometriosi sarà possibile individuare eventuali discrepanze tra le descrizioni fatte di questa malattia.  Secondo quanto riportato da Donatella Cozzi ci sono a volte delle incongruenze tra come la malattia viene vissuta dai pazienti e il modo in cui viene trattata dai medici (Cozzi 2012). Ad esempio nel caso dell’endometriosi la classificazione di questa malattia da parte dell’American Fertility Society si concentra sull’elemento delll’infertilità, dando poca importanza a quello che per le pazienti può essere il sintomo più debilitante, ossia il dolore pelvico cronico (Cozzi 2012). 
Reputo dunque che sia legittimo utilizzare le “illness narratives” come concetto attraverso cui fare l’analisi poiché, anche se inusuali, i post sono densi di significati e le caption creano delle narrative con una struttura e una trama. Questi post sono dei modi di ‘gestire gli episodi di malattia per mezzo di operazioni comunicative, come quella di definire e spiegare’ (Young 2006: 118), ed è quindi possibile analizzarne le narrative.

Capitolo secondo
L’invisibilità del dolore 
Contestualizzazione delle narrative
Per essere in grado di comprendere i significati delle narrative che stiamo trattando è importante capire il contesto in cui queste sono state prodotte. Come spiega Lars-Christer Hyden ‘it is important to distinguish between different narrative contexts because the context influences the narrative's form, presentation and interpretation’ (Hyden 1997: 62). Le narrative sono state condivise online su una piattaforma social, Instagram, da donne che soffrono di endometriosi. I post sono stati pubblicati da diverse parti del mondo, ma principalmente dagli Stati Uniti, dall’Australia o da Paesi Europei. È difficile invece definire se i lettori dei post provengano da una parte specifica del mondo o meno, poiché i post sono di dominio pubblico e dunque potenzialmente visualizzabili da chiunque. Tuttavia, proprio per la vastità del pubblico potenzialmente raggiungibile, possiamo immaginare che sia un pubblico eterogeneo. É importante tenere in considerazione che il potenziale “interlocutore” di queste narrative è costituito da persone che non hanno una formazione medica e non sanno cosa sia l’endometriosi. Tuttavia fanno parte del pubblico potenziale anche altre donne che soffrono di endometriosi, tra cui alcune delle altre partecipanti al progetto; queste donne, anche se non hanno un background medico, conoscono bene la malattia. Le donne che hanno condiviso i loro post sembrano essere in parte consapevoli della tipologia di lettori a cui sarà visibile il loro feed; nelle caption si possono a volte distinguere due tipologie di narrative, una diretta al pubblico che non conosce la malattia, la seconda diretta alle altre donne che come loro ne soffrono.
È importante ricordare che questi post fanno parte di una campagna di sensibilizzazione. Nati per “sensibilizzare”, i post hanno una struttura diversa da quella che avrebbero avuto se prodotti in circostanze diverse; nella relazione medico-paziente, ad esempio, non ci sarebbe stato il bisogno di spiegare cos’è la malattia. La domanda che ci si pone è su quali aspetti della malattia desiderino creare maggiore sensibilizzazione e da dove venga questa necessità di condividere la loro esperienza; queste tematiche verranno analizzate nei paragrafi successivi.


Rendere visibile l’invisibile
Il primo impatto con le narrative che stiamo analizzando è un impatto visivo; la prima cosa che salta agli occhi è infatti l’immagine e non certo la caption scritta in piccoli caratteri sotto la foto. Molte delle immagini del progetto #thisisendometriosis non hanno una particolare esecuzione tecnica fotografica, ma si intuisce subito che dietro c’è una storia che cerca di venire fuori.
Già da una visione generale del progetto si evince una delle tematiche forse più importanti delle narrative prodotte: la necessità di rendere una malattia invisibile visibile. Questa è una tematica importante e ricorrente nei casi di dolore cronico, come nello studio di Deborah Padfield, dove per la maggior parte dei pazienti la ragione per partecipare alla sua ricerca era ‘to make pain visible and ‘real’ for others’ (Padfield et al. 2009).
Prima di procedere con l’analisi degli elementi da cui si evince questa tematica è importante capire cosa etichetta l’endometriosi come “invisibile”. Innanzi tutto non manifesta alcun sintomo esterno ed è quindi “invisibile”. Allo stesso tempo l’endometriosi può essere definita “invisibile” perché è molto poco conosciuta. I dolori da endometriosi vengono spesso confusi con dolori da ciclo mestruale, e dunque la malattia si nasconde dietro un altro nome i cui sintomi però sono molto meno rilevanti (Alpago-Novello 2018). Il dolore provato è spesso sottovalutato e normalizzato,  rendendo la malattia “invisibile” agli occhi degli altri. La sua invisibilità rende l’endometriosi “non reale” e fa sì che chi ne soffre non venga preso seriamente, come analizzato nel prossimo capitolo. Una delle ragazze che ha postato per #thisisendometriosis ha aggiunto una frase nell’immagine che dice ‘but you don’t look sick’ (@bab); questa frase mostra come troppo spesso non viene data la giusta considerazione a questa malattia perché i sintomi non sono visibili. Per chi prova il dolore è frustrante che la malattia non possa essere oggettivamente considerata reale perché nessuno può vederla (Kleinman 1999). Poiché il dolore che provano non è visibile e viene sottovalutato dagli altri, i pazienti sentono  la pressione di dover convincere se stessi e gli altri che il dolore è reale (Kleinman 1999: 59). Come spiega Michael Taussig ‘l’autoconsapevolezza e l’autogiudizio richiedono la presenza e la riflessione di altre persone’ (Taussig 2006: 49), da ciò la necessità di rendere visibile l’invisibile, così che il loro dolore possa essere validato anche dagli altri. Come riporta Sarah Nettleton, nel suo studio “Understanding the narratives of people who live with medically unexplained illness”, una delle donne nella sua ricerca ha detto: ‘I just want permission to be ill’ (Nettleton et al. 2005: 207).
Tornando all’analisi del progetto #thisisendometriosis possiamo vedere come già l’aver scelto come piattaforma di condivisione il social media Instagram, piuttosto che Facebook o Twitter, indica la volontà di farsi “vedere”. Instagram è infatti una piattaforma social che si basa sulla condivisione di fotografie o immagini, e dove le parole sono secondarie. Cos’è una fotografia se non la volontà di rendere qualcosa visibile? ‘Photographs furnish evidence. Something we hear about, but doubt, seems proven when we’re shown a photograph of it’ (Sontag 2008: 5). Il creare un’immagine che rappresenti una malattia vuole mostrare che questa esiste e che si è malati anche se non si vede. Come afferma Elena Gonzalez-Polledo nel suo studio sull’espressione dell “illness narratives” del dolore cronico sui social media, l’immagine produce una forma di immediatezza di narrazione che rende l’esperienza di dolore visibile (Gonzalez-Polledo 2016: 1456). 
Anche nel modo in cui è costruito il soggetto delle immagini sono presenti degli elementi che indicano il voler rendere la malattia visibile. Rendere una malattia visibile agli occhi di qualcuno, vuole dire avere dei segni sul corpo che possano essere riconosciuti come malattia e dunque presa con serietà. Come è già stato precedentemente descritto, le foto rappresentano un addome dove delle cicatrici sono state cerchiate e unite con un tratto di penna. Le cicatrici sono un importante elemento del rendere una malattia visibile. In una delle sue ricerche, lo psichiatra antropologo Arthur Kleinman racconta di un uomo che soffre di dolore cronico alla schiena; questo suo paziente definisce le sue cicatrici come dei segni che gli assicurano che c’è qualcosa di “fisicamente sbagliato” nella sua schiena (Kleinman, 1988: 68). Come lui anche le partecipanti al progetto usano le cicatrici ritratte nelle foto per mostrare che c’è qualcosa di “sbagliato” nel loro corpo anche se non si vede. Avere almeno un segno visibile della malattia è per le pazienti molto importante, Byron Good spiega : ‘considerando lo stretto legame tra l’invisibile e il reale nelle pratiche cliniche della medicina, la resistenza a manifestarsi visivamente è una sfida alla realtà della sofferenza ed è una sconfessione per il paziente’ (Good 1999: 192). Le cicatrici raccontano la loro storia, le operazioni subite, e più in generale, il loro dolore. Come ribadito anche da Donatella Cozzi ‘a meno che la superficie del corpo non ne mostri le tracce che lo giustificano e che lo rendono reale per noi /.../ il dolore per chi non lo vive non è reale’ (Cozzi 2001: 98).
Il disegno a penna fatto sull‘addome racconta anche della cronicità della malattia. Sulla pancia di @sor ad esempio, accanto alla cicatrice presente nell'ombelico sono state segnate cinque date: 2004, 2007, 2014, 2014, 2017. L’utilizzo delle date rende reale la lunghezza del tempo segnato dall’esperienza di malattia. Tuttavia queste date raccontano solo la storia di ciò che è accaduto dopo la diagnosi, tralasciando gli anni passati a cercarne una; per questo ci sono le caption che riportano nel dettaglio le esperienze vissute. Infatti le immagini possono trasmettere emozioni che potrebbero non essere percepibile in una pagina scritta (Victor 2009), però considerando che la foto non sarebbe sufficiente senza la caption, poiché risulterebbe piuttosto enigmatica, forse il miglior modo per mostrare cos’è l’endometriosi è proprio l’utilizzo combinato della fotografia e della parola.
Anche nelle caption ci sono degli elementi che raccontano dell’urgenza di rendere la malattia visibile. Qui è il tipo di linguaggio utilizzato e le tematiche trattate che permettono alle users di creare un’immagine dell’endometriosi che la renda “reale”. Un’immagine che la renda riconoscibile come malattia e che possa essere compresa anche da chi la malattia non la conosce. Potremmo definirla una “immagine virtuale” che si forma nella mente del lettore e che mostra l’endometriosi in una forma che possa rientrare nella comune rappresentazione di malattia della cultura occidentale. Una elaborazione dei sintomi che dia un significato sociale e morale alla malattia (Taussig 2006: 104). L’endometriosi è clinicamente già definita come malattia, e non ci dovrebbe essere bisogno di rimarcarla come tale; ma poiché l’atteggiamento di chi non la conosce a fondo è spesso quello di minimizzare il problema, si può comprendere la necessità delle donne di sottolinearne la gravità. Per creare questa immagine virtuale dell’endometriosi le users danno molta importanza al racconto delle operazioni chirurgiche subite, alcune ne riassumono il numero, altre le descrivono in ordine cronologico e in dettaglio. Le operazioni, esattamente come le cicatrici, sono un elemento che fa parte della rappresentazione culturale di malattia, dunque un’altro modo di mostrare la gravità dell’endometriosi (Kleinman 1999). In alcune delle descrizioni viene anche spiegato in che parti del loro corpo si  è diffuso il tessuto endometriale. @ind racconta come durante la sua quarta laparoscopia viene rinvenuto che l’endometriosi era presente sulle sue ovaie, che si erano ripiegate in dentro e si erano attaccate all’utero, la sua vescica era ricoperta da endometriosi, così come l’intestino e il retto, la parte posteriore dell’utero e lo spazio retto-vaginale. Alcune indicano anche le parti del sistema riproduttivo che sono state rimosse; una tuba di Falloppio insieme all’ovaia sinistra e metà dell’ovaia destra nel caso di @ang. Tutte queste sono immagini molto forti che danno un’idea “fisica” della gravità della malattia e che permettono di renderla concreta e reale.
È interessante vedere come queste descrizioni si basano su una concezione biomedica della malattia, come riporta Cozzi ‘il vissuto soggettivo della malattia è pensato e descritto sempre anche a partire dalle categorie della scienza medica esistente in quel determinato sistema medico’ (Cozzi 2012: 206). L’utilizzo di questo linguaggio medico probabilmente è anche ciò che permette di creare “un’immagine di malattia riconoscibile”, come specificato precedentemente, poiché si tende a prendere più sul serio la biologia che un racconto del dolore (Kleinman 1999). La scelta di descrivere l’esperienza con un linguaggio biomedico, piuttosto che basandosi solo sull’esperienza del dolore che provano, mostra ancora una volta come ci sia una volontà dietro, consapevole o inconsapevole, di rendere l’endometriosi visibile e reale, mostrandola nella sua gravità.

Dolore, relazioni e giudizio morale
Uno dei sintomi principali e più debilitanti dell’endometriosi è il dolore pelvico cronico, che caratterizza l’esperienza di malattia e influisce considerevolmente sulla vita di chi ne soffre. Di seguito riporto due caption che raccontano del dolore.

‘I endured years of crippling pain before i was diagnosed with endo, and then years more full of ineffective surgeries, hormone shots, and continued pain that stole my life away from me’. (@all)

‘The days are as dark as this picture feels. The pain of carrying around a body that doesn’t want to serve me is as excruciating as the physical symptoms. Laying in a puddle of pain and wasting my days away is something i never thought i’d be doing, yet here i am‘. (@sav)

Queste caption trattano di un’importante tematica presente nella letteratura di antropologia medica e su cui sono state fatte diverse ricerche: il dolore cronico e il suo impatto sulla vita dei pazienti (vedi Kleinman 1988, Good 1999). Nel suo libro “Narrare la malattia” Byron Good (1999) osserva come il dolore non è un elemento secondario nella vita dei suoi pazienti: ‘il dolore diventa un “tutto”, un’esperienza di totalità, non un singolo insieme di sentimenti, ma una dimensione di tutta la sua percezione; dal corpo fluisce all’esterno nel mondo sociale, invadendo il suo lavoro e infiltrandosi nelle attività quotidiane’ (Good 1999: 189). Anche per le donne che soffrono di endometriosi il dolore occupa uno spazio ingombrante nella vita. Nelle fasi acute il dolore è così debilitante che non possono fare alcun tipo di attività (Aerts 2018). Poiché spesso il dolore si presenta in corrispondenza del ciclo mestruale, alcune cercano di calcolare i giorni in cui dovrebbe ripresentarsi e organizzano i propri impegni di conseguenza; ad esempio nel programmare un viaggio o un evento speciale, nell’accettare o meno un invito e così via. In questo modo cercano di avere controllo della propria quotidianità, ma in realtà è la malattia che prende il “controllo”, costringendole ad organizzare la propria vita intorno ad essa. ‘Month after month...3 surgeries later, never knowing if I’d be able to have kids, endo ruled my life. I had to plan events around my period. And no one took it seriously’ (@inn). La malattia prende il controllo non solo della quotidianità ma anche del futuro, come spiega questa caption. Inoltre organizzarsi risulta molto difficile e le occasioni di vita sociale sono molto ridotte; spesso le donne evitano di uscire a causa del dolore e della stanchezza, e per paura che il dolore si presenti mentre sono fuori (Aerts 2018). Il fatto che la loro quotidianità, come anche il loro futuro, sia dominata dalla malattia influisce molto sull’esperienza che hanno del mondo esterno. Questo può portare a quello che è stato definito da Elaine Scarry come “distruzione del mondo” (Scarry in Good 1999). Come riportato da Good, molte delle persone affette da malattie croniche esprimono la sensazione che il mondo non sia più lo stesso. La user @dell racconta: ‘my life with Endo is very different than it was before and I am along side so many other  women who feel that way, too’. La ‘realtà del senso comune’ non è più un qualcosa di ovvio, ma ci si rende conto che è soltanto una convenzione (Good 1999: 189). Il mondo che esperisce chi soffre di malattie croniche non è più lo stesso degli altri e soprattutto è ‘un regno non del tutto sondabile dal prossimo’ (ibidem: 192).
Parlando dell’effetto del dolore sulla sua vita, una delle donne scrive  ‘You don't even see the heating pads, the side effects, the mountain of medical bills, the failed relationships, missed events, how many times she bled through her favorite clothing’ (@chr). Il dolore oltre ad avere un effetto debilitante per il fisico, inficia anche tutto il resto. Il vivere in un mondo separato porta ad un senso di estraneità, spesso chi soffre di endometriosi è riluttante a parlarne, perché non si sente preso sul serio, cosa che porta ad un ancora maggior senso di solitudine e isolamento (Aerts 2018). Questo senso di isolamento si crea anche in ambito familiare; come scritto da una delle users ‘The hardest thing I am currently dealing with is my family trying to make light of it, not understanding, and wanting to deny the seriousness of it. Makes me feel like I am on an island by myself’ (@emi). Infatti il dolore crea un’altra dimensione che al resto della gente risulta ‘oscura e impenetrabile’, ed è soprattutto ‘resistente ad ogni conferma sociale’ (Scarry in Good, 1999: 192). La conferma sociale è proprio quello che chi soffre di malattie croniche vorrebbe, così da poter essere legittimamente malate, ma proprio il dolore e l’invisibilità della malattia rende ciò molto difficile. Infatti la differenza tra il “mondo normale” e il “mondo del dolore” porta chi fa parte del primo a metter in questione l’autenticità del dolore stesso (Kleinman 1988).
Il non essere compresi da parte di chi ci circonda può lasciare segni più profondi di quello che si pensa. Il fatto che il loro dolore non sia preso sul serio e che venga messo in dubbio come non reale, infatti, provoca grande frustrazione e mortifica molti pazienti (Cozzi 2012). Le donne che soffrono di endometriosi non hanno problemi solo perchè il loro “mondo” è diverso da quello degli altri, ma anche perché la società le carica di un giudizio morale che non gli fa vivere serenamente la loro malattia, insinuando che stiano mentendo. @end scrive: ‘It was scary to be in such horrific pain daily and even more devastating not to be taken seriously’. Gran parte della gente non conosce neanche l’esistenza dell’endometriosi e il loro giudizio è dovuto all’ignoranza.
Prima di inoltrarmi nell’analisi dei casi in cui il dolore provato viene sminuito, voglio far presente che ci sono anche casi in cui queste donne sono sostenute dalle loro famiglie. Alcune delle donne raccontano dell’amore dei loro familiari, delle madri che combattono con loro per aiutarle ad ottenere una diagnosi, dei fidanzati che gli stanno vicino durante le operazioni, a volte anche dei figli piccoli che portano una borsa dell’acqua calda per lenire il dolore.
‘She is two /.../ She will sit with her hand on my belly and tell me its ok. 
Go find my hot water bottle and give it to daddy to fill.
She will tell me she loves me.
She reminds me to keep fighting'. (@sha)
Ma spesso questa non è la norma. Raccontando le loro esperienze molte delle ragazze riferiscono che si sentono incomprese dalle persone che le circondano, di come siano poco supportate e di come spesso il loro dolore sia sminuito e non creduto. Dai racconti delle donne del progetto #thisisendometriosis si evince come il dolore si insinua nelle relazioni sociali; come definito da Cozzi ‘il problema del dolore è il problema della relazione tra colui che lo prova e gli altri’ (Cozzi 2012: 98). Infatti, poiché il dolore non è visibile, in chi non lo prova si crea il dubbio che il dolore non sia reale, o che la reazione al dolore sia esagerata. Probabilmente è il contrasto tra un corpo che si presenta esternamente sano e il dolore espresso che crea confusione in chi è esterno al dolore. Guardando un corpo visivamente sano è difficile immaginare che quello stesso corpo stia provando dolore. @lau ‘The other day my mom said for the millionth time «you sure look good today. You must be feeling better» I had to put my foot down and tell her not to say this again’. In questo caso, vedendola in forma, la madre pensa che la figlia stia meglio, non percependo il dolore che la figlia sta provando. Il non sembrare malate  fa nascere il dubbio che il dolore non sia veramente presente a chi guarda con occhi esterni. Come ad esempio scritto da @bab: ‘It’s hard to deal with the physical aspects of your illness, along with how everyone else sees you. If I had a dollar for every time someone has said “wow you don’t look sick” or “you look great today, you sure you’re not feeling well” I’d have enough money to pay off all this pesky medical debt. The truth is our physical appearance is so misleading’.
Questa frase esplicita come chi soffre di endometriosi non viene considerato legittimamente malato perché non appare malato. Il dubbio sulla veridicità del dolore si trasforma facilmente in un giudizio; alcune persone esterne pensano che il dolore non sia così forte e che i sintomi siano solo esagerati, come se fosse un capriccio. Ad esempio @ren riferisce come le persone attorno a lei pensassero che stava solo esagerando i sintomi: ‘I had endometriosis and everyone thought I was just being a baby’. La minimizzazione della gravità della malattia non avviene solo in contesto familiare, ma anche nel contesto sociale.
‘The comments are what make us afraid, embarrassed... Late night last night? «You can afford to stay home, you only have dogs. You don’t look sick». YES, late night awake in pain. How can I afford NOT to stay home?’ (@mrs).
A volte i commenti di altre persone le fanno sentire giudicate dalla società come se stessero utilizzando il loro malessere per non fare ciò che dovrebbero e per non prendersi le proprie responsabilità (Cozzi 2012); come spiega bene una donna tra le intervistate nella ricerca di Kate Seear: ‘they think you are trying to get out of things’ (Seear 2009: 1224). Chi sta accanto a chi soffre di questo tipo di malattie arriva a percepire il malato come un manipolatore; come se queste donne fingessero il loro dolore per ottenere dei vantaggi, per dominare gli altri, rendere legittima la propria dipendenza o, al contrario, per essere lasciati in pace o per negare rapporti sessuali (Cozzi 2012). In questo caso non solo la gravità della malattia viene sminuita, ma le donne che ne soffrono vengono anche giudicate moralmente. ‘Some may think we are exaggerating. They may point fingers, say we are faking, and call us liars. However, just because they can’t see it doesn’t mean it isn’t there’ (@ser).
In ambito lavorativo spesso le donne non si sentono di parlare dei loro sintomi a causa delle potenziali implicazioni e anche perché non si sentono a loro agio nel parlare di una condizione che è solo del genere femminile (Aerts 2018). Quando lo fanno, anche supportate da una diagnosi, non sempre trovano l’empatia da parte del prossimo. @fo_ racconta un’esperienza di non empatizzazione da parte di estranei alla malattia, in questo caso il suo datore di lavoro: ‘Years ago, my doctor ordered me to take some time off work because the stress was making my endo worse. My boss at the time looked at the doctor’s note and said, “if you want time off, I’m going to need a better explanation than a belly ache’. In questa caption la donna in questione ha dovuto subire una situazione umiliante a causa di un giudizio dettato dall’ignoranza; è si può vedere come la sua malattia non venga presa seriamente e come la sua richiesta venga giudicata moralmente come non appropriata. Questa caption spiega anche come possa essere difficile vivere con una malattia non “oggettivata” dagli altri (Bury 2001: 274). Vengono considerate pigre e bugiarde fino ad inventarsi il dolore come scusa. Spesso non è la malattia ad essere giudicata, ma il giudizio viene posto sulla reazione alla malattia da parte di chi ne soffre. Quando le donne parlano troppo e in modo negativo della loro condizione rischiano che ciò che esprimono venga percepito come una lamentela non basata su un dolore reale, come se fossero loro a causare la condizione non relazionandosi in modo appropriato con il loro corpo e la loro salute (Werner 2003). Per questo motivo le donne che soffrono di endometriosi o di altre malattie che portano dolore cronico, devono non solo trovare un modo di affrontare i propri sintomi nel contesto lavorativo, ma sentono anche il bisogno di dare un’immagine di sé come 'morally competent actors' (Bury 2001).
Nel caso dell’Endometriosi, il dolore, oltre ad essere messo in dubbio, viene anche normalizzato. Essendo molto poco conosciuta spesso viene erroneamente considerata come un ciclo mestruale un po’ più doloroso del solito. Ovviamente, come spiegato nel capitolo uno, l’endometriosi non denomina un ciclo doloroso, ma è una malattia cronica, cosa che tende a essere ricordata e sottolineata in molte caption: ‘period pain is not normal, but endometriosis is not just period pain. It's a chronic inflammatory disease’ (@ire). Tuttavia questo non toglie che c’è chi è convinto che sia solo un ciclo mestruale doloroso. Poiché il dolore mestruale è visto come qualcosa di normale, di conseguenza anche il dolore da endometriosi viene considerato tale e non viene accettato dagli altri come legittimamente invalidante (Wright 2019). Soprattutto in un’epoca in cui si possono prendere gli analgesici per alleviare il dolore, il ciclo mestruale non è considerato come una motivazione sufficiente per non adempiere alle proprie responsabilità (Ranisio 2012).
Esiste un preconcetto sociale che crede che le donne sappiano resistere al dolore più degli uomini (Bendelow, 1993). Per questo motivo la società si aspetta che le donne non si lamentino dei dolori mestruali e soprattutto che non si comportino come se fossero malate (Wright 2019); di conseguenza ciò vale anche per l’endometriosi. La continua messa in dubbio del dolore che provano e l’equipararlo al dolore da ciclo per cui “tutte” soffrono, confonde le donne su come e quando sia legittimo parlare della loro condizione e chiedere aiuto (Nettleton 2004). Queste riflessioni possono essere validate da uno scandalo che ha colpito una trasmissione radio italiana lo scorso novembre, dopo che durante il Morning Show di Radio Globo la conduttrice radiofonica ha insultato un’ascoltatrice affetta da endometriosi dicendole che ‘non è degna di essere donna se non va a lavoro con il ciclo’ (@carmendipietroofficial). L’ascoltatrice è stata criticata di non essere abbastanza forte da saper reagire al dolore e quindi di non essere una vera donna. Da una situazione del genere si evince come le donne che soffrono di endometriosi spesso vengano giudicate per non essere capaci di gestire il loro dolore, come se questo non fosse poi così intenso. È anche interessante vedere come le donne, molto più degli uomini, vengono anche considerate colpevoli del loro dolore, come se potessero avere almeno in parte un controllo dei propri sintomi (Cozzi 2012), e decidessero di proposito di stare male. Il modo in cui il dolore influisce nelle relazioni è dunque dovuto alle caratteristiche del dolore cronico stesso, ma è anche determinato dai pregiudizi legati alla malattia e dal gender della persona malata. Le donne in particolare devono lottare di più per far sì che la loro malattia venga presa sul serio e non come una lamentela immotivata (Werner 2003). Dall’analisi di queste narrative si è inoltre visto come la messa in dubbio dell’autenticità del dolore, all’interno delle relazioni personali e sociali può creare un’immagine “negativa” delle donne che soffrono di endometriosi. Da questo si capisce ancora meglio la necessità di rendere la malattia visibile, di cui si è parlato nel capitolo precedente. Infatti solo facendo conoscere la loro malattia posso sperare di distruggere i pregiudizi e gli stereotipi ad essa legati.


La diagnosi di una malattia invisibile

Una delle narrative forse più ricorrenti nelle caption dei post con l’hashtag #thisisendometriosis è il racconto della ricerca di una diagnosi; riuscire ad ottenere la diagnosi di endometriosi può essere molto difficile e possono volerci anche molti anni. Sembra che le donne sentano il bisogno di ripercorrere passo passo questa parte della loro esperienza di malattia (McGowan 2007). Molte delle partecipanti raccontano del loro estenuante percorso; solo poche di loro sono riuscite ad ottenere una diagnosi in poco tempo e molte hanno dovuto sopportare il dolore e combattere per una diagnosi per un decennio o anche di più. Tuttavia l’esperienza angosciante non è solo segnata dal lungo periodo di tempo passato a subire il dolore, ma ciò che ha influito più negativamente è spesso la relazione con i medici (ibidem). Di seguito due esempi:

‘About a year ago, my life started to change. After ELEVEN YEARS of undiagnosed & inexplicable pain, I finally found a group of physicians who listened to me’ (@won).

‘I’ve spent years explaining my symptoms to doctors. Insisting that my periods weren’t normal. My pain wasn’t normal. The doctors just assumed that I was being dramatic. They’d prescribe me another birth control, suggest more Tylenol, and send me on my way’ (@wii).

Questi sono solo due brevi estratti delle tante caption che narrano dell’esperienza del cercare una diagnosi, molte delle quali sono anche più lunghe e dettagliate. Le due qui citate, anche se brevi, riportano delle informazioni presenti ricorrentemente nelle caption che raccontano della ricerca di una diagnosi. Uno degli elementi è certamenta la tempistica. Nel primo caso ben undici anni di attesa; nel secondo caso non è specificato quanti anni siano passati, ma è più esplicita la frustrazione provata. In queste caption, inoltre, si esplicitano alcune delle dinamiche della relazione medico-paziente. Come nelle relazioni familiari e sociali, anche nel contesto sanitario sono presenti la “messa in dubbio dell’autenticità del dolore” e la “normalizzazione del dolore”. La differenza tra le relazioni in contesto quotidiano e quelle con personale sanitario è che nel secondo caso ci si aspetterebbe di interagire con qualcuno disposto ad ascoltare e a prendere sul serio i sintomi, qualcuno che sappia analizzare la narrazione di malattia fatta dalle pazienti e che sia in grado di aiutarle. Cercare una risposta ai propri sintomi è un percorso molto importante dell’esperienza di malattia, di solito infatti la ricerca di una diagnosi è intrapresa per migliorare la propria condizione ed è ‘uno sforzo per opporsi alla distruzione del mondo’ (Good 1999: 197). Darle un nome può aiutare a dare senso alla malattia e a combatterla, infatti cercare le origini del proprio dolore dà la speranza di poterlo alleviare (ibidem). Nel caso dell’endometriosi l’estenuante percorso della ricerca di una diagnosi può tuttavia essere vissuto in maniera negativa e può portare ad un maggior isolamento dal mondo e al crescere del senso di incomprensione. Da quanto deducibile dall’analisi delle caption, nel caso dell’endometriosi, la relazione medico-paziente si basa in parte su un rapporto di sfiducia. La sfiducia provata dalle donne con endometriosi nei confronti di molti dei medici è dovuta a due motivi: la mancanza di preparazione dei medici e il loro non ascoltare le pazienti. Entrambi questi motivi influenzano l’esperienza di malattia sia da un punto di vista fisico che psicologico ed inoltre sono in parte causa del ritardo nella diagnosi.
Nell’esperienza di alcune delle partecipanti spesso i medici non si sono rivelati abbastanza preparati. @Kra racconta come il suo ginecologo le disse che non aveva niente, e che se lei avesse avuto l’endometriosi lui avrebbe potuto sentirlo, ‘gyn told me my symptoms weren't endo symptoms. Told me he could feel and tell me if I had it. Total bs.’, cosa in effetti non possibile considerando che l’unico modo certo di diagnosticare l’endometriosi è tramite una laparoscopia (Al-Jefout et al. 2009). Un’altra caption interessante è quella di @end: ‘What if my gynecologist had referred me to an #endometriosis specialist as a teenager when I had clear #endometriosis symptoms? What if the general surgeon who took out my appendix at 23 could have recognized the disease that was clearly covering my entire pelvis, impacting multiple vital organs? What if my reproductive endocrinologist sent me to an #endometriosis specialist instead of just ablating my disease? How much less suffering?’.
Attraverso queste domande, @end racconta della mancanza di preparazione dei medici che avrebbero potuto riconoscere l’endometriosi e aiutarla. Non solo i medici non sono preparati a riconoscere la malattia, ma sono impreparati anche su come trattarla. ‘I trusted that the doctor knew what they were doing. They lasered my endometriosis, which I now know doesn't properly get rid of endometriosis /.../ unsurprisingly, I carried on feeling like shit’ (@fjsfj).
Da queste narrative si palesa la crescente sfiducia nel rapporto medico-paziente e di come a causa della impreparazione dei medici, la malattia è stata spesso misdiagnosticata per anni o non “curata” nel modo considerato appropriato dalle pazienti. La mancanza di preparazione da parte dei medici potrebbe forse essere scusata se fossero almeno disposti ad ascoltare le loro pazienti, ma spesso non è così. Questo non solo provoca ritardi nella diagnosi ma crea anche disagi psichici-emotivi nelle pazienti, arrivando a farle dubitare di lore stesse .
Spesso le donne si sentono dire che è normale per una donna avere dolori durante il ciclo mestruale. @Ire riporta dalla sua esperienza: ‘If you are a teenager and you go to multiple doctors who all tell you and your mom that you are healthy, that what you are going through is normal and “part of being a woman”, you go home and normalize your pain. For years. And you don't talk about it again because all the others out there have the same, right?’. In questo modo non solo i sintomi vengono normalizzati ma in qualche modo anche ignorati. Analizzando questa caption si può vedere come l’atteggiamento dei dottori faccia sentire le donne ancora più isolate nel loro dolore e come le faccia sentire inadeguate e deboli rispetto alle altre, come se ci fosse un ‘moral failing in not being able to cope with menstrual pain in the same way as other women’ (Denny 2009: 989).
La situazione peggiora quando le donne iniziano a sentirsi dire “è tutto nella tua testa”. Nelle caption viene raccontato come spesso i medici presuppongono che il dolore che le donne provano non sia reale; alcune si sono anche sentite dire che si stavano inventando tutto per avere attenzioni o perché erano dipendenti da medicinali. ‘Doctors would tell me nothing was wrong, that it was all stress and anxiety and it was all in my head. That I was looking for drugs or attention’ (@kyl). Questo tipo di interazioni con il personale sanitario non è di certo innocuo per le pazienti. Come spiega Michael Taussig ‘la relazione tra medico e paziente è più che una semplice relazione di tipo tecnico. È piuttosto un’interazione sociale capace di rafforzare le premesse culturali di base in modo estremamente efficace. Il malato è una persona dipendente e angosciata, nelle mani del dottore e del sistema di assistenza sanitaria, molto malleabile ed esposto alla loro manipolazione e al loro moralismo’ (Taussig 2006: 79). 
Ciò considerando si può vedere come il modo in cui i medici ascoltano i sintomi ha una grande influenza sull’esperienza di malattia anche da un punto di vista morale. L’affermazione che il dolore provato è tutto nella testa, infatti, mina la sicurezza in se stesse delle pazienti e va a minare ancora di più la legittimità della malattia, con tutto ciò che ne consegue. La domanda spontanea che viene da porsi leggendo questi racconti è: perché i medici non le ascoltano?
Di certo l’endometriosi pone ai medici tutte le difficoltà di analisi caratteristiche delle malattie croniche, ma è davvero solo questo? O il fatto che siano donne ha un’influenza sulla reazione dei medici ?
Spesso l’antropologia medica ha studiato le differenze di espressione del dolore in contesti culturali diversi, ma raramente si è concentrata sulle differenze di genere (Cozzi 2012). Poiché l’endometriosi è una malattia che colpisce solo le donne, i casi di uomini sono pochissimi ed eccezionali, per poterne capire approfonditamente l’esperienza di malattia è importante considerare la ‘notion of pain as gendered’ (Denny 2009). La medicina occidentale ha da lungo tempo associato le pazienti donne con isteria e ricerca di attenzioni (Wright 2019), questo si riflette anche nei casi di endometriosi. Le supposizioni sono che, a differenza degli uomini, i sintomi delle donne abbiano un’origine emotiva (Werner 2003); per questo motivo al genere femminile viene più spesso dato un sedativo per il dolore, piuttosto che un farmaco come viene dato agli uomini (Hoffmann 2001). I dottori hanno un modo diverso di interpretare i sintomi rispetto a chi è il paziente, come detto da Arthur Kleinman: ‘understanding who you are influences how I interpret your complaints’ (1988: 16). Da ciò si può dedurre che se i dottori sono influenzati dai preconcetti che vedono un carattere di eccessività nelle espressioni di dolore delle donne (Cozzi 2012), questi tenderanno a negare i sintomi e dire che è tutta una questione psicologica. Questo atteggiamento dei medici, definito anche come ‘sindrome della cecità di genere’ (Alpago-Novello 2018), porta decisamente ad un ritardo nella diagnosi, ad una relazione medico-paziente in cui le pazienti donne non si sentono ascoltate, ed anche ad un impatto sulla psicologia delle pazienti. La diagnosi biomedica è infatti molto importante per le donne che soffrono di endometriosi per essere accettate come genuinamente malate (Denny 2009). In questo caso non solo la loro genuinità come pazienti viene messa in dubbio, ma a sua volta anche la loro capacità di percezione della realtà. In conclusione del capitolo una caption dell’user @sag: ‘Doctors continued to tell me that nothing was wrong, that it was stress and anxiety and that everything was in my head. I was looking for attention. After a doctor laughed at me I decided to give up, live my life and try to deal with it. When you’re told you’re not feeling the way you do, it can really mess with your head to say the least’. Questa caption ci fa capire come, anche se non esiste una cura per l’endometriosi, dare più credibilità alle narrative poste dalle donne e offrire al loro dolore uno status maggiore può migliorare la loro esperienza di malattia (Denny 2009).



Capitolo terzo
Le narrative per un nuovo inizio

Ricostruzione dell’Io, ricostruzione del mondo
Poiché l’endometriosi è una malattia cronica, le donne che ne sono affette devono trovare un modo per affrontare i sintomi della malattia così che la malattia non stravolga la loro vita. Caratteristica dell’esperienza di malattia è anche la continua negoziazione dell’immagine di sé stesse, del modo in cui vogliono essere viste nelle interazioni sociali e professionali. Infatti essendo ciclici, i sintomi dell’endometriosi non sono presenti per la maggior parte del tempo, per questo le donne che ne soffrono spesso non si conformano all’idea comune di persona affetta da una malattia cronica a lungo termine (Denny 2009). Come è stato possibile vedere nel capitolo precedente l'invisibilità della malattia, la scarsa conoscenza che si ha di essa e la  messa in dubbio del dolore fanno sì che le donne che soffrono di endometriosi siano sovrastate dai pregiudizi. I giudizi morali a cui sono sottoposte non sono presenti solo nel contesto quotidiano ma anche in quello sanitario. Le donne non vengono ascoltate, vengono giudicate come pigre, bugiarde, incapaci di affrontare il dolore, isteriche, lamentose; questi giudizi destabilizzano la sicurezza in loro stesse. Essendo messa in dubbio l’autenticità di quello che provano, le donne affette da endometriosi devono trovare dei modi per creare un’immagine positiva di loro stesse e per dare senso alla malattia. Creare un’immagine positiva di se stesse è infatti fondamentale per ricostruire “l’Io”, frantumato ed indebolito dai continui giudizi morali a cui è sottoposto. Il fatto che il dolore venga messo in dubbio e che le donne si sentano dire che è tutto nella loro testa mina la sicurezza nella propria percezione della realtà. Uno dei modi per superare questa incertezza è ottenere una diagnosi e dunque avere una conferma che ciò che sentono è reale. Cercare una diagnosi è inoltre anche un modo per dare un senso alla malattia, per darle un nome nella speranza di poterla combattere e per contrastare la distruzione del mondo  (Good 1999). Come abbiamo visto nel capitolo precedente purtroppo ottenere una diagnosi non è sempre così facile e a volte passano anni prima che l’endometriosi venga diagnosticata; perció le donne devono convivere per molti anni con la malattia senza sapere come affrontarla e questo destabilizza il loro “Io” ancora di più. Riprendendo parte della citazione di @aaa si può capire meglio la loro situazione: ‘the minute I woke up I asked if I had endometriosis and when the answer was yes, I burst into tears, and through those tears I told my mom, «I’m not crazy. They thought I was crazy. I’m not crazy» If I could go back to every doctor I went through and tell them they failed me, I would. The mental damage they did to me is honestly unforgivable’. Questa citazione esprime l’emotività del momento e l’importanza di avere una conferma della realtà del dolore provato; si percepisce il forte impatto psicologico che i giudizi degli altri possono avere su chi è affetto da malattie croniche e il sollievo dell’avere una conferma oggettiva che il dolore non era “tutto nella testa”. La diagnosi ha dunque il potere di rendere la malattia reale sia ai propri occhi che agli occhi degli altri, ‘assegnare un nome all’origine del dolore è anche un passo fondamentale nella ricostruzione del mondo, nell’assegnare un autore a un sé integrato’ (Good 1999: 198). Come la diagnosi anche le cicatrici lasciate dalle operazioni mirate a rimuovere il tessuto endometriale hanno il loro ruolo e il loro significato. Le cicatrici sono infatti un elemento che ricorda alle pazienti quello che hanno passato; sono un segno visibile e percepibile con i polpastrelli, un segno che la malattia esiste e che esiste una motivazione al dolore che si prova (Kleinman 1988). ‘Each one of these scars represents years of pain, sorrow, deep hurt, chaos, confusion, insecurity, fear, and doubt. They are constant physical reminders of my journey— the good and the bad’ (@eli). Le cicatrici sono un promemoria fisico delle operazioni subite. Le operazioni, oltre a lasciare cicatrici, possono anche rappresentare una narrativa di speranza. Le narrative sul futuro hanno un'accezione positiva o negativa rispetto alle esperienze avute precedentemente. La speranza che un’operazione chirurgica possa migliorare la situazione e rimuovere il dolore, la negatività in chi ha già sperimentato che l’operazione non ha risultati definitivi, il sospetto e la paura che il dolore tornerà. Tuttavia anche se può essere impregnata di pessimismo, l’operazione rimane comunque un simbolo di speranza e un modo di affrontare la malattia. Ma, come detto precedentemente, la malattia deve essere affrontata anche nell’ambito sociale e quotidiano. La malattia infatti non si presenta solo nel corpo, ma nella vita, come anche ‘nel tempo, in un luogo, nella storia, nel contesto dell’esperienza vissuta e nel mondo sociale’ (Good 1999). Per questo motivo le narrazioni possono essere fondamentali per meglio capire l’esperienza della malattia, così da porre il dolore in relazione alle altre esperienze della vita (ibidem). Come spiegato da Lars-Christer Hyden ‘by arranging the illness symptoms and events in temporal order and relating them to other events in our lives, a unified context is constructed and coherence is established’ (Hyden 1997: 56). La narrazione della propria esperienza può essere considerata come una sorta di rituale che mira a ricostruire il mondo convenzionale (Good 1999). Per questo motivo la produzione stessa delle narrative presenti nelle caption può già essere considerato come un modo di cercare di dare senso alla malattia o un modo di affrontarla, come uno sforzo verso la ricostruzione del mondo. Attraverso le caption le donne narrano della ricerca della diagnosi, delle operazioni subite, delle relazioni personali, delle relazioni con il personale sanitario, dando senso a questi eventi collocandoli in ordine temporale. Nelle caption è possibile ritrovare delle forme di narrazione dotate di una trama, quello che Mattingly definisce “emplotment terapeutico” (Mattingly 1994). Secondo questa antropologa, può essere terapeutico creare un senso della propria situazione, organizzando gli episodi di malattia in una struttura narrativa coerente, che abbia un inizio, una parte intermedia e una fine (ibidem). Nelle caption condivise attraverso l’hashtag si può riconoscere una struttura di emplotment in cui l’inizio coincide con il primo episodio di endometriosi, la parte centrale è la fase di ricerca di una diagnosi e la fine equivale all’ottenimento della diagnosi. Essendo l’endometriosi una malattia cronica per la quale non esiste cura, la conclusione della trama narrativa creata non coinciderá mai con il superamento della malattia e il ritorno ad una vita “normale”. Per questo motivo la maggior parte delle narrative è lasciata aperta. Tuttavia, poiché le malattie croniche alterano le relazioni del paziente con se stesso, con il proprio corpo e con il contesto circostante,  creare un emplotment può essere particolarmente importante proprio per questo tipo di pazienti (Hyden 1997). Le narrative non sono solo un modo di imparare ad accettare ed affrontare la malattia, ma hanno anche la potenzialità di mostrare qualcosa dell'immagine di sé che il narratore vorrebbe che gli altri vedessero (Hyden 1997). Le narrative hanno dunque il compito di provvedere ad una prospettiva morale degli eventi passati (Mattingly 1998: 29). Mattingly spiega come a volte nell’emplotment terapeutico si cerca di creare un’immagine del paziente come eroe, un eroe che deve combattere contro la malattia e per far sì che la malattia non stravolga completamente  la sua vita (Mattingly 1998: 96). Anche nelle narrative create su Instagram dalle donne affette da endometriosi è presente la figura di una combattente; le donne sono immaginate come guerriere che lottano per ottenere una diagnosi, per trovare i modi migliori per affrontare la malattia, e nonostante le continue ricadute continuano la battaglia dalla quale non possono astenersi. Nelle caption e nei commenti spesso si riferiscono a loro stesse e alle altre donne che soffrono e combattono come loro definendosi “endo warriors”. Di seguito due esempi:
‘From an endo warrior to another, thank you for sharing’ (@_el).
‘Those battle wounds show you are a survivor. You inspire me! You are an endo warrior! I know your story will help others’ (@ksu).
In queste due citazioni è presente un’altro elemento importante: la condivisione. Nelle narrative analizzate è infatti presente lo sforzo di ricostruire l’ “Io” e il mondo attraverso la condivisione. Attraverso la condivisione si può apprendere dell’esistenza di altre donne affette dalla stessa malattia con cui condividere la propria esperienza, scoprire di non essere le uniche può rafforzare la sicurezza in se stesse e nella propria percezione delle cose. Ascoltare o leggere le esperienze di altre persone attraverso le narrazioni, fornisce gli strumenti per acquisire, confermare, rifinire o modificare alcuni significati culturali della malattia, che possono aiutare a dare un senso alle proprie esperienze e anche a quelle delle altre (Garro 2003). La condivisione, inoltre, crea un’esperienza comune della malattia ed è un modo per sforzarsi di ricostruire il mondo. Attraverso la condivisione con un pubblico più ampio le donne cercano anche di creare un mondo migliore per se stesse e per le nuove generazioni, così che le giovani ragazze affette da endometriosi possano avere un percorso più facile di quello avuto da altre donne prima di loro.
‘There needs to be more education, exposure & research to help one's health & to help improve quality of life. More exposure & knowledge, especially for younger women/girls, could help them find their voice and speak up about issues they're having’ (@jac).
Questo fa capire come sia importante per loro cambiare il modo in cui gli altri vedono e giudicano l’endometriosi, per rendere possibile la ricostruzione del loro mondo.
La condivisione di informazioni attraverso le narrative permette anche di affrontare con più sicurezza l’aspetto biomedico della malattia. All’interno dei post c’è infatti uno scambio di informazioni relative alle migliori pratiche, vengono consigliate diete che mirano a tenere sotto controllo la malattia, viene raccomandata l’escissione come il miglior intervento chirurgico a cui sottoporsi e vengono sconsigliati gli altri tipi di chirurgia.
Georgie Wileman citata in molte delle caption racconta: ‘without a fellow Endo friend telling me about excision, I would still be in a wheelchair due to pain from the disease’.
Questa citazione mostra come lo scambio di informazioni possa essere fondamentale per migliorare la loro condizione e introduce la tematica della comunità, che verrà trattata nel paragrafo successivo.


Una comunità di sorelle virtuali
Quanto scritto nei capitoli precedenti ci ha permesso di capire come le donne che soffrono di endometriosi si sentano isolate dal resto del mondo. Infatti spesso il loro dolore non viene creduto autentico e loro vengono giudicate come delle bugiarde, per questo si sentono poco ascoltate da chi le circonda e si chiudono in se stesse. Quanto detto non rende difficile immaginare che sentano la necessità di avere qualcuno con cui condividere ciò che gli sta succedendo senza essere giudicate. Quel qualcuno capace di ascoltare e capire lo possono trovare nelle altre donne che hanno l’endometriosi, che anche se hanno avuto un’esperienza in parte diversa, conoscono il dolore e le difficoltà sociali di vivere con questa malattia. Le narrative descritte nelle caption e le interazioni attraverso i commenti ai post ci permettono di percepire le dinamiche di communitas che si creano tra queste donne attraverso la condivisione delle loro esperienze di malattia sul social media. In un commento la user @cor scrive ‘Thankful there is a community for us... this disease makes you feel incredibly alone at times. Hope to gain some endo sistas’. In questa caption si parla della presenza di una comunità, della solitudine provata e della speranza di trovare sostegno in nuove amicizie. La possibilità di leggere le esperienze vissute dalle altre donne dona anche conforto: ‘this post brought me to tears. I haven't found another endo sister whose stomach looked like mine. I sleep with 2 heating pads every night. Thank you for showing me I'm not alone’ (@sab).  La comunità che si viene a creare è perlopiù virtuale, poiché le esperienze sono condivise online attraverso instagram. Tuttavia a volte la comunità supera la virtualità e permette degli incontri reali: ‘I live in Vancouver Canada, but have EndoSisters in Boston I visit’ (@sar).
Considerando l’eterogeneità, da un punto di vista della situazione economica, dell’età, della nazionalità e probabilmente anche da un punto di vista religioso, delle donne che hanno postato attraverso l’hashtag #thisisendometriosis viene da chiedersi come, nonostante le differenze, si possa creare una comunità. L’unione di queste donne in una comunità è possibile per quello che Paul Rabinow definisce ‘biosociality’ (Rabinow 2005: 186). Secondo questo concetto, la condivisione di una comune condizione biologica fa sì che si creino forme di communitas (Rabinow 2005). Le donne che soffrono di endometriosi anche se molto diverse l’una dall’altra diventano parte di uno stesso gruppo, infatti in virtù della condivisione di determinate esperienze e di una comune condizione, sperimentano la partecipazione a una comune identità di gruppo. L’esperienza di malattia dell’endometriosi è simile per tutte loro. Le difficoltà che hanno dovuto superare nella ricerca di una diagnosi, nell’affrontare i sintomi debilitanti e nelle relazioni con il mondo esterno le uniscono. ‘Thank you to all of the amazing women who also shared their stories. We are all connected by our scars’ (@ala). In questa citazione le cicatrici rappresentano gli ostacoli che hanno affrontato e segnano l’esperienza comune a tutte. In questo caso la condivisione e la creazione di una comunità è resa possibile dalla mediazione elettronica. La condivisione attraverso il social network gli permette di entrare in contatto con tante donne, sia vicine che lontane, provenienti da diverse parti del mondo. Nei post analizzati sono presenti interazioni tra le partecipanti che esprimono la loro sensazione di far parte di una comunità, generata dalla comune esperienza dell’endometriosi. In particolare vengono spesso utilizzati le definizioni “endo-sisters” o “endo-friends” che esplicitano il tipo di relazione da cui si sentono legate alle loro “compagne di viaggio”. I termini “sorelle” e “amiche” in questo caso indicano un rapporto di stretta affinità e di fiducia anche tra persone che a stento si conoscono, che si sentono sorelle e amiche di altre donne solo per il fatto di condividere la stessa malattia. ‘To all my EndoSisters. You are not alone!!!’ (@fes).
La necessità di chi è malato di rapportarsi con qualcuno che abbia problemi simili sembra essere qualcosa di ricorrente nell’esperienza di malattia. L’antropologo australiano Michael Taussig scrive di quanto detto da una paziente da lui intervistata, “non sarei sopravvissuta senza l’aiuto degli altri pazienti in queste otto settimane” (Taussig 2006: 87). Sempre secondo la stessa paziente, i rapporti umani con le altre persone malate sono più onesti perché con loro non devi indossare una maschera. Taussig prosegue analizzando come per la paziente fosse importante il rapporto con le altre persone ricoverate con lei poiché queste le davano il supporto umano che non riceveva dai medici; tuttavia la paziente reputava che dal punto di vista medico o per la riabilitazione gli altri pazienti non potessero aiutarla perché lo avrebbero fatto in modo sbagliato, e che in quel caso c’è bisogno di un professionista  (Taussig 2006). A differenza del caso analizzato da Taussig, nel caso del progetto #thisisendometriosis, sembrerebbe che le donne che soffrono di endometriosi trovino nelle endo-friends sia un supporto umano che uno biomedico. Ovviamente le endo-friend non possono sostituirsi ad un medico professionista quando si tratta di ottenere una diagnosi ufficiale, di un’operazione chirurgica e così via. Tuttavia oltre a supportarsi a vicenda da un punto di vista psicologico, si scambiano anche informazioni mediche relative alla malattia, ai migliori trattamenti, alla tipologia di sintomi. Ad esempio @ind scrive: ‘I want to start with proper excision surgery is the GOLD CARE standard for treating Endometriosis with a proper specialist not an average OBGYN’. Per questo motivo la relazione tra le donne che soffrono di endometriosi è fondamentale. Le relazioni tra endo-friends ed endo-sisters gli permette di non sentirsi isolate, e la condivisione con le altre permette di sentirsi parte di un gruppo, di sapere di non essere le uniche e di aver dunque qualcuno che le ascolti e che validi il loro dolore; se non sono le uniche a provarlo allora vuol dire che il dolore è reale. A causa della particolarità della malattia si può dedurre che l’identità di gruppo che si forma attraverso la condivisione sia molto forte. L’essere un gruppo unito le rende anche più forti nell’affrontare il mondo della vita. Come visto nel capitolo precedente la malattia ha una grande interferenza nelle relazioni sociali, e l’immagine di malattia che ha origine da queste relazioni ha un forte impatto sull’esperienza di malattia. L’aggregazione delle endo-sisters in una comunità con una forte identità di gruppo dà a queste donne la possibilità di lottare insieme per migliorare la loro condizione e il loro diritto ad essere considerate legittimamente malate. L’identità della comunità può infatti diventare un’identità politica come intesa da Susan Reynolds Whyte (2009); un’identità inerente soprattutto alla rivalutazione della differenza, un’identità che diventa testimonianza della discriminazione, ma anche lotta per il riconoscimento, i diritti e la giustizia sociale (Whyte 2009). Per concludere un commento della user @new, dove ringrazia ed incita le altre endo-sisters: ‘Thank you for bringing endometriosis awareness. Let’s all work together to end the suffering’.
Conclusione

L’analisi dei post con l’hashtag #thisisendometriosis ci ha permesso di comprendere l’esperienza di malattia delle donne che soffrono di endometriosi e l’importanza del creare narrative al riguardo. La malattia è caratterizzata da sintomi invisibili che spesso vengono messi in discussione. Poiché molte delle persone estranee alla malattia dubitano che il disagio espresso sia autentico, le donne iniziano a credere che il dolore che provano non sia reale, dilemma enfatizzato dal commento dei dottori che dicono che ciò che provano è causato solo dallo stress e che è “tutto nella loro testa”. Tutto ciò ha un grande impatto negativo sulle relazioni interpersonali e sulla percezione di se stesse. Per rivalutare se stesse ai propri occhi e agli occhi degli altri, chi soffre di endometriosi ha una forte necessità di rendere la malattia visibile e reale. Questo può essere reso possibile grazie alla condivisione e alla narrazione dell’esperienza di malattia su Instagram, che dà la possibilità di superare le difficoltà del linguaggio nel comunicare il dolore, affidandosi sia alle immagini sia alle parole.
Rendere la malattia visibile e oggettiva agli occhi degli altri significherebbe essere legittimamente malate, ed avere dunque un modello di comportamento da seguire in quanto persona malata che sia accettato dagli altri. Si può dunque dire che l’endometriosi abbia molte cose in comune con altre malattie croniche, soprattutto quelle caratterizzate da dolore cronico. Tuttavia, per quanto detto in relazione alla reazione alla malattia dei medici, degli amici o dei familiari, credo sia opportuno sottolineare come l’esperienza di malattia dell’endometriosi sia anche caratterizzata dall’essere una malattia femminile. Sia per quanto riguarda il modo in cui le donne vengono giudicate o non ascoltate, sia per le difficoltà dell’ottenere una diagnosi, si può supporre che il tutto sia esasperato dalle differenze di genere.
Attraverso la narrazione si può riuscire a rendere la malattia visibile e dunque a migliorare la condizione di chi soffre di endometriosi. La condivisione di narrative che raccontano l’esperienza di malattia permette infatti di dare un senso alla malattia, di creare una comunità di endo-sisters e di educare le persone che non conoscono la malattia, così da renderle più comprensive verso chi ne soffre.
Poiché non esistono cure, avere la possibilità di vivere la malattia senza dover subire il giudizio morale degli altri, renderebbe più facile l’esperienza di malattia. La diffusione di informazioni riguardanti la malattia potrebbe anche facilitare la diagnosi e sollecitare la ricerca medica.
Considerando quanto detto da Clifford Geertz, che ‘le culture forniscono alle persone dei modi di pensare che sono al tempo stesso modelli di realtà e modelli per la realtà’ (Young 2006: 120), si può dedurre che attraverso le campagne di sensibilizzazione come l’hashtag #thisisendometriosis, queste donne stanno mettendo in discussione il modello della cultura occidentale in cui vivono, dove la loro malattia non viene considerata, l’espressione di dolore delle donne è interpretato come eccessivo e dove la donna dovrebbe accettare il dolore senza lamentarsi. La partecipazione all’hashtag e la comunità che si viene a creare può dunque essere letto come un tentativo di migliorare la proprio condizione attraverso la sensibilizzazione delle persone attorno a loro. Se tutti fossimo più informati su questa malattia e più comprensivi, l’esperienza di malattia di queste donne potrebbe certamente migliorare.









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